Dirigenti e Patto di Prova

Articolo pubblicato su Norme & Tributi – Il Sole 24 Ore

Spesso l’assunzione di un dipendente, anche di un dirigente, viene sottoposta ad un periodo di prova. Lo scopo è di consentire ad entrambe le parti di valutare se dare proseguimento al rapporto di lavoro, anche se in molti casi è il datore di lavoro ad avere il potere contrattuale per richiedere la previsione di un periodo di prova.

Il patto di prova deve risultare da atto scritto (art. 2096 c.c.); la forma scritta è richiesta ad substantiam e la sua mancanza determina la nullità del patto. Il patto di prova deve essere sottoscritto contestualmente o precedentemente all’inizio del rapporto di lavoro (nella maggior parte dei casi è inserito nel contratto di assunzione) e se sottoscritto successivamente è nullo (ex pluribus Cass. 22 ottobre 2010, n. 21758; inoltre Cass. 26 novembre 2004, 22308 ha confermato la sentenza di appello che aveva dichiarato nullo il patto di prova stipulato prima dell’inizio del rapporto di lavoro, ma dopo la sottoscrizione del contratto di assunzione).

E’ inoltre consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il patto di prova deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione specifica (eventualmente per relationem) delle mansioni oggetto della prova (ex pluribus Cass. 19 agosto 2005, n. 17045); soltanto in tal modo esso assolve alla funzione di identificare le mansioni sulle quali il lavoratore sarà valutato, consentendo il controllo sull’effettivo esperimento della prova (come richiesto da Corte Cost. n. 189 del 1980).

Il requisito della specificità dell’indicazione delle mansioni è stato variamente interpretato nei singoli casi concreti. A titolo esemplificativo, per quanto riguarda il rapporto di lavoro dirigenziale, è stato ritenuto non idoneo a soddisfare tale requisito il solo riferimento alla qualifica di “direttore amministrativo”, senza alcuna precisazione delle concrete mansioni o dell’ambito di attività nelle quali esse avrebbero dovuto essere svolte (Tribunale Roma 14 luglio 2005).

Viceversa, è stata ritenuta sufficiente l’indicazione del ruolo di “direttore generale”, dovendosi intendere per “direttore generale” colui che è “di riferimento per tutte le aree aziendali ed interfaccia con i vertici”, mentre un eventuale mansionario sarebbe “esemplificativo delle mansioni in concreto affidate o avere significato limitativo delle stesse” (Tribunale Venezia 11 giugno 2021, n. 398). Parimenti, è stato reputato specifico il riferimento all’inquadramento contrattuale, all’ambito territoriale e alle mansioni di “Managing director Italy”, considerato che il dirigente si era candidato al posto di lavoro dopo aver esaminato una job description e aveva egli stesso proposto di utilizzare l’espressione “Managing director” per definire la posizione di lavoro (Tribunale Milano 16 giugno 2017, n. 1541).

La durata massima del periodo di prova è di sei mesi salva la durata inferiore prevista dai contratti collettivi; in caso di rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova deve essere stabilito “in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego” (art. 7 decreto legislativo 27 giugno 2022, n. 104).

Ai sensi dell’art. 2096 c.c., durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal rapporto di lavoro, senza obbligo di preavviso o d’indennità; quando è previsto un periodo di durata minima, il recesso può avvenire soltanto dopo la scadenza di tale termine.

In via giurisprudenziale, anche a seguito di interventi interpretativi della Corte Costituzionale (in particolare, sent. n. 189 del 1989, cit., e sent. n. 541 del 2000), sono stati peraltro individuati alcuni limiti alla discrezionalità del potere di recesso del datore di lavoro. In particolare, il recesso è illegittimo quando l’esperimento non è stato consentito per la sua inadeguata durata o per altri motivi, come nell’ipotesi in cui al prestatore di lavoro siano state assegnate mansioni differenti da quelle oggetto della prova, oppure se il prestatore di lavoro ha superato positivamente la prova oppure se è fondato su motivo illecito.
In tali casi, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, non consegue l’applicazione delle tutele ordinarie, ma il prestatore di lavoro ha soltanto diritto a proseguire la prova per il tempo mancante sino alla relativa scadenza oppure al risarcimento del danno, in quanto dall’illegittimità del recesso non discende che il rapporto di lavoro debba essere considerato come stabilmente costituito (fra le altre, Cass. 3 dicembre 2018, n. 31159; Cass. 12 marzo 1999, n. 2228).

Alla luce di tale orientamento, il Tribunale di Milano, in una controversia in cui ha dichiarato illegittimo il licenziamento di un dirigente per l’inadeguatezza della durata della prova, ha condannato il datore di lavoro a corrispondere le retribuzioni dalla data del recesso sino al termine del periodo di prova, rigettando la domanda di pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare prevista dal contratto collettivo per l’ipotesi di licenziamento privo di giustificatezza (Tribunale Milano 16 giugno 2017 n. 1541, cit.).

Invece, con riferimento al caso di un dirigente che aveva dimostrato di avere positivamente superato la prova, il Tribunale di Roma è giunto a differenti conclusioni in ordine al regime sanzionatorio applicabile (Tribunale Roma 2 maggio 2007). Secondo il Tribunale, non ogni motivo estraneo all’esperimento della prova determina, al pari del motivo illecito, l’illegittimità del licenziamento, ma soltanto il motivo estraneo che sia anche ingiustificato, altrimenti i lavoratori in prova si troverebbero in una situazione di vantaggio rispetto a quelli non in prova (così anche Cass. 17 gennaio 1998, n. 402); nel caso di specie, poiché dalle risultanze probatorie erano emerse giustificate ragioni di natura organizzativa alla base del recesso, il Tribunale ha escluso il diritto del dirigente all’indennità supplementare, mentre, stante il mancato rispetto del termine di preavviso previsto dal contratto collettivo, gli ha riconosciuto la relativa indennità sostitutiva. Dalla sentenza si può ricavare a contrariis che quando il motivo estraneo all’esperimento non sia idoneo a comportare la giustificatezza del licenziamento il dirigente ha diritto all’indennità supplementare.

Differente rispetto alle ipotesi di illegittimità del licenziamento sopra indicate è quella del licenziamento intimato per mancato superamento della prova in presenza di un patto di prova nullo (come, ad esempio, nell’ipotesi di patto di prova sottoscritto successivamente all’inizio del rapporto di lavoro o privo di indicazione specifica delle mansioni oggetto della prova). In quest’ultimo caso, la nullità della singola clausola non comporta la nullità dell’intero contratto di lavoro, con la conseguenza che il rapporto di lavoro è da intendersi stabilmente costituito senza patto di prova.

Secondo alcune sentenze, poiché il mancato superamento della prova non configura una giusta causa o un giustificato motivo di recesso, si applica la tutela ordinaria prevista in base alla disciplina applicabile (tra le altre, Cass. 3 agosto 2016, n. 16121). In tal senso, con riferimento al rapporto di lavoro di dirigenziale, il Tribunale di Roma, in un caso di nullità del patto di prova per omessa specificazione delle mansioni, ha ritenuto che l’illegittimità del licenziamento “discende dalla accertata nullità del patto di prova”, condannando il datore di lavoro a pagare al dirigente l’indennità sostitutiva del preavviso e l’indennità supplementare (Tribunale Roma 14 luglio 2005, cit.).

Secondo altre sentenze, invece, in ipotesi di nullità del patto di prova, il recesso si configura come un ordinario licenziamento sottoposto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo (tra le altre, Cass. 12 settembre 2016, n. 17921). Per quanto concerne il rapporto di lavoro dirigenziale, alla luce di tale orientamento, in presenza di allegazioni da parte del datore di lavoro in ordine ai motivi del recesso, si dovrebbe accertare se il licenziamento è sorretto da giusta causa o da giustificatezza.

Come si può evincere, gli orientamenti non sono univoci sulle conseguenze del licenziamento in caso di nullità del patto di prova e sarà pertanto interessante esaminare quelli che saranno i futuri approdi giurisprudenziali.

Secondo altro orientamento (prevalente nella giurisprudenza della Suprema Corte), occorre invece distinguere tra la verifica della determinatezza o determinabilità del compenso ex art. 1346 c.c. e quella della sua congruità ex art. 2125 c.c.;  un compenso destinato ad aumentare in base alla durata del rapporto di lavoro è comunque determinabile ai sensi dell’art. 1346 c.c. se quantificabile in base a criteri oggettivi, fermo restando che, alla luce di una valutazione ex post, potrebbe risultare non congruo, se simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato rispetto al sacrifico imposto al lavoratore, e quindi comportare la nullità dell’intero patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c. (ex pluribus, Cass. 11 novembre 2022, n. 33424; Cass. 25 agosto 2021, n. 23418; Cass. 1 marzo 2021, n. 5540; Corte d’appello Milano 13 settembre 2022).

Nell’alveo di quest’ultimo orientamento, la Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte d’appello di Milano che aveva ritenuto valido il patto di non concorrenza sottoscritto da un dirigente bancario (con mansioni di private banker) che stabiliva il pagamento nel corso del rapporto di lavoro di un importo fisso annuale (Cass. 25 agosto 2021, n. 23418, cit.); in particolare, la Corte d’appello aveva precisato che il corrispettivo risultava facilmente determinabile e, in quanto destinato ad aumentare con la durata del rapporto di lavoro, maggiormente idoneo a compensare il sacrificio del dirigente che avrebbe avuto maggiore difficoltà a ricollocarsi altrove a seguito di una specifica esperienza a lungo maturata nello stesso posto di lavoro.

La casistica sulla congruità del corrispettivo (la cui valutazione è rimessa al giudice di merito) è variegata.  A titolo esemplificativo, è stato ritenuto congruo un importo annuo pari a 12.000 euro lordi da corrispondersi nel corso del rapporto di lavoro (a fronte di una retribuzione annua lorda iniziale di 63.000 euro e finale di 100.000 euro), considerato che il patto lasciava la possibilità di impiegarsi in altri settori merceologici e/o al di fuori del territorio italiano (Corte d’appello Milano 13 settembre 2022, cit.); invece un corrispettivo pari a 8.500 euro lordi annui pagati in costanza di rapporto (a fronte di una retribuzione di circa 59.000 annui) è stato giudicato inadeguato in relazione alla specifica professionalità del lavoratore (un promotore finanziario) e alle sue esigenze di vita, poiché, per non violare il patto di non concorrenza, egli avrebbe dovuto ricrearsi un nuovo portafoglio clienti in un’altra zona (Tribunale Udine 16 novembre 2018, n. 197).

Per quanto concerne i limiti di oggetto, il patto di non concorrenza può riguardare anche mansioni differenti da quelle svolte nel corso del rapporto di lavoro, ma non essere di ampiezza tale da compromettere ogni possibilità di guadagno del lavoratore (tra le tante, Cass. 25 agosto 2021, n. 23418, cit.).

Il limite di oggetto deve essere valutato anche in relazione al limite di territorio: in linea di principio, tanto più ampio è l’oggetto, quanto più circoscritto dovrebbe essere l’ambito territoriale.

Si segnala un’interessante recente pronuncia della Corte d’appello di Torino con cui è stato ritenuto valido il patto con cui un dirigente con mansioni di direttore commerciale si era impegnato a non svolgere attività in favore di qualsiasi impresa che operasse nel settore relativo ad uno specifico prodotto, benché il vincolo riguardasse addirittura tutto il mondo (Europa, Russia, Medio Oriente, Asia, America del Nord e del Sud, Africa e Oceania) e nonostante il dirigente avesse maturato una trentennale esperienza esclusivamente in tale ambito (Corte d’appello di Torino 31 ottobre 2022, n. 520); in particolare, la sentenza ha sottolineato che la professionalità di un direttore commerciale si caratterizza non solo per la conoscenza del prodotto, ma anche per altre competenze (in ambito economico, nelle trattative e nell’organizzazione del personale), e, pertanto, il dirigente avrebbe potuto esplicare la propria attività lavorativa in qualunque settore oltre che in settori affini.

In caso di declaratoria di nullità del patto di non concorrenza, il lavoratore è liberato dall’obbligo di non concorrenza e il datore di lavoro ha diritto di ripetere gli importi pagati quale corrispettivo.

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