Dirigenti e patto di stabilità
Di sovente, all’atto dell’assunzione del dirigente, una o entrambe le parti si impegnano a non recedere dal rapporto di lavoro per un certo periodo di tempo, tranne nell’ipotesi di giusta causa. Tale impegno viene definito “patto di stabilità” oppure, quando è inserito nella lettera di assunzione, anche “clausola di durata minima garantita”.
Succede spesso infatti che il dirigente voglia assicurarsi che il rapporto di lavoro abbia una certa durata, per esempio quando, per intraprendere la nuova esperienza lavorativa, deve lasciare altra occupazione comunque soddisfacente, oppure che il datore di lavoro abbia interesse ad assicurarsi per un certo periodo la prestazione del dirigente, per esempio quando intenda affidargli la realizzazione di un determinato progetto aziendale.
Inoltre, il patto di stabilità può essere sottoscritto anche nel corso del rapporto di lavoro, potendo, successivamente all’assunzione, sorgere l’esigenza, per una o entrambe le parti, di garantire per un certo tempo la permanenza del rapporto stesso.
In passato si era dibattuto sulla legittimità o meno del patto di stabilità che vincoli il dipendente, considerato che comporta una limitazione della sua autonomia negoziale per quanto attiene alla facoltà di recesso. Ormai da tempo la giurisprudenza è dell’avviso che tale patto sia legittimo purché preveda un corrispettivo per il dipendente.
Circa l’ammontare e la forma di tale corrispettivo, la Suprema Corte ha affermato che esso può essere liberamento determinato dalle parti e può consistere anche “nella reciprocità dell’impegno di stabilità assunto dalle parti ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, consistente in una maggiorazione della retribuzione o in una obbligazione non-monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore” (Cass. civ., sez. lav., 9 giugno 2017, n. 14457, in una controversia che riguardava un dirigente).
Ai fini della legittimità del patto di stabilità, non è quindi necessario che risulti indicato uno specifico corrispettivo riferito al patto stesso, dovendosi valutare se la retribuzione concordata sia di entità tale da compensare non solo la prestazione lavorativa, ma anche la restrizione al diritto di recesso del dipendente. In ogni caso, la retribuzione che non supera il c.d. minimo costituzionale non può essere considerata sufficiente a remunerare anche il patto di stabilità, essendo inderogabile il diritto del lavoratore di percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto ex art. 36 Cost. (Cass. civ., sez. lav., 9 giugno 2017, n. 14457, cit.).
Tuttavia, nel redigere un patto di non stabilità, prudenzialmente è sempre preferibile prevedere uno specifico corrispettivo (monetario o non).
La parte che viola il patto di stabilità è tenuta al risarcimento del danno in favore dell’altra parte. Poiché può risultare difficile provare il danno subito, è opportuno prevedere già nel patto di stabilità le conseguenze derivanti dalla sua violazione.
In particolare, in caso di patto a favore del dirigente, viene solitamente previsto a carico del datore di lavoro, che licenzi anticipatamente rispetto alla scadenza del periodo di stabilità, l’obbligo di corrispondere al dirigente un trattamento pari alle retribuzioni che sarebbero spettate dal giorno del recesso sino a tale scadenza.
E’ inoltre importante per il dirigente che nel patto di stabilità si preveda espressamente, onde evitare problemi interpretativi, che l’importo risarcitorio connesso alla sua violazione è aggiuntivo alle indennità previste dalla contrattazione collettiva per l’ipotesi di licenziamento.
In caso di patto di stabilità a favore del datore di lavoro, viene solitamente prevista una penale a carico del dirigente che si dimette prima del termine di durata dello stesso patto.
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